Serve l’Università
Raccolgo le sue idee, torno a casa con la piacevole sensazione che si prova quando si incontra una bella persona, generosa e colta. Mi documento, torno a leggere le ipotesi di lavoro dell’Ufficio scolastico regionale in tema di prevenzione del bullismo; rifletto sul carattere pluridimensionale che il fenomeno ha per esplorare in che senso la comunità locale possa farsi carico di questo problema. Con queste sollecitazioni in testa, vado a cercare Rita Gatti, che è stata mia docente quando frequentavo Pedagogia a Bologna. Sono andata a ripescarla dopo tanti anni e le ho esposto l’idea che piano piano con Claudia Pari veniva avanti. La competenza di Rita Gatti diventa determinate e subito ci aiuta a dare un nome, e quindi un inquadramento teorico, a quello che volevamo fare. Cominciamo a parlare dei gelatieri come di possibili “educatori leggeri”, educatori informali nel senso di adulti che possono assumere in maniera intenzionale, quindi con consapevolezza, un ruolo di comunicazione educativa e non solo commerciale nei confronti dei loro piccoli clienti.” Gli adulti possono esercitare un ruolo di educatori informali, quindi i contesti di vita e di lavoro sono contesti di apprendimento di regole sociali”. A questo punto si apre un’altra finestra: l’educazione, prima di essere una faccenda del cuore, degli affetti, è una faccenda sociale, cioè è attraverso l’educazione che una comunità trasferisce valori e regole.
… per trovare una cornice
Ed ecco definita il primo cerchio di cornice del nostro progetto: Non congelateci il sorriso è un progetto attraverso il quale adulti gelatieri, nei loro luoghi di lavoro, mentre esercitano la loro attività, si mettono a disposizione della comunità locale nel senso di contribuire a trasferire regole. Si tratta chiaramente di regole e valori pertinenti ai luoghi in cui la relazione accade; molto concretamente, se in gelateria si manifestano comportamenti semplicemente scorretti o non adatti, i gelatieri intervengono. Possono essere comportamenti che riguardano le relazioni tra i bambini come gli spintoni, le piccole prepotenze, possono essere comportamenti di piccolo sbandamento o malcreanza. Ci possono essere due approcci: l’approccio di chi dice: “non sono figli miei, fra poco vanno via, chi se ne frega; hanno consumato il mio prodotto e a me basta” oppure – e noi facciamo leva sempre di più su questo fatto – “sono un adulto e non mi dimentico di esserlo nemmeno quando sono all’interno del mio esercizio e nemmeno quando sono davanti a ragazzi che non sono figli miei”. È questo che abbiamo ricordato ai gelatieri e abbiamo trovato subito una significativa condivisione, anche perché, semplicemente dal punto di vista del valore aziendale, noi ricordiamo loro che è sempre il cliente che fa il locale: un cliente maleducato fa un locale poco interessante.
Grazie all’intervento di una Pedagogista dell’Università, pertanto, si chiarisce il significato e la forma del coinvolgimento delle gelaterie.
… ma senza la scuola non si va in nessuna direzione
Si trattava a questo punto di costruire il dispositivo con la scuola secondaria di primo grado, e più precisamente bisognava trovare un Dirigente Scolastico talmente forte da volere condividere con le piccole imprese un processo educativo e non semplicemente un contenuto.
Negli anni precedenti il mio ingresso a “BuonLavoro”, avevo lungamente lavorato come consigliera di orientamento e manager di servizi all’interno del Comune di Rimini. In quel ruolo avevo conosciuto molte scuole ed insegnanti, poi ritrovati anche attraverso la mia nuova collocazione professionale. Tra questi Enrica Morolli, per me una stella polare tutte le volte che è stato necessario sottoporre a rigoroso esame idee e progetti di collegamento tra scuola e impresa. La prima edizione del progetto si realizza in una classe della sua scuola “Alighieri-Fermi” con una classe prima della professoressa Marina Paracciani. Attraverso la preside Morolli coinvolgiamo la Direttrice Didattica Rosa D’Amico e due insegnanti di classe quinta elementare, Simona Santini e Cristiana Fabbri. Vogliamo realizzare una sorta di “edizione zero”, per capire, mettere a punto. Siamo convinti che le situazioni di transizione, come il passaggio da un ciclo di istruzione all’altro, rappresentino situazioni di potenziale criticità; e che in prima media sia fondamentale far condividere le regole di convivenza e di lavoro in un nuovo contesto.
Come lavorare in classe?
Le insegnanti coinvolte sono “quelle giuste”, l’approccio preventivo al bullismo avviene favorendo un’esperienza e la sua rielaborazione piuttosto che attraverso la trasmissione frontale di contenuti. Sono proprio le insegnanti a suggerire il ricorso al laboratorio di improvvisazione teatrale, non per fare uno spettacolo ma per far emergere vissuti, paure, rappresentazioni sociocognitive. Abbiamo la fortuna di conoscere Marcello Franca, persona poliedrica che mescola i linguaggi del teatro, dell’animazione, dell’educazione. Riconosciuto e amato da subito dagli alunni, porta nella scuola la sua esperienza di animatore teatrale ed è proprio grazie a Marcello che riusciamo a strutturare il “ laboratorio” come dispositivo educativo per coinvolgere gli alunni e renderli responsabili della realizzazione di un prodotto che, successivamente, sarà presentato ai genitori. Ricordo benissimo questa prima edizione del progetto. Le due Dirigenti avevano deciso di organizzare una comune mattinata di lavoro per coinvolgere alunni e genitori di entrambe le scuole e per favorire uno “scambio” dei lavori teatrali dei ragazzi.
In scena
Era dicembre, quasi a ridosso delle vacanze natalizie, un sabato mattina di autentico inverno, con il cielo grigio e i fiocchi di neve. Per l’occasione avevamo affittato la sala teatrale di una parrocchia e impegnato i genitori e fare le riprese. I bambini della scuola elementare riproducevano alcune scene di “Pinocchio”, forse la prima favola che parla di bulli. Quelli della scuola media avevano realizzato un piccolo copione, di grande efficacia per i messaggi potenti che manda agli adulti. Eccola:si apre una scatola, dentro c’è il diario di un maestro di scuola di campagna di tanti anni fa che racconta una storia che si svolge in una classe. C’è una bambina – perché il bullismo è anche una faccenda di sesso femminile – abilissima nel disprezzare il lavoro e le relazioni dei compagni, nel far ricadere la responsabilità di baruffe che si verificano in classe sugli altri e nel vendicarsi rispetto a tentativi di dire la verità che alcuni compagni di questa classe immaginaria mettono in atto. La preside, impersonata nella scena dai bambini ha questo tipo di reazione, rivolgendosi all’insegnante dice: “lasciamo stare quella ragazzina (la bulla) perché lo sai, i genitori si sono separati da poco tempo e quindi…”. In questa situazione i bambini interpretano così il ruolo svolto dagli adulti che rappresentano l’istituzione e lo vedono così: “quando “pietiamo la vostra sensibilità”, vi prendiamo sempre per il naso”; perché per esempio, in questo caso ci dicono: “attenzione perché noi siamo in grado di farci beffa di voi e attenzione perché voi ci fate degli sconti sulla base di dati oggettivi (come una separazione) che di fatto possono essere compresi ma non giustificati”.
Il lavoro svolto attraverso il laboratorio diventa materiale per la rielaborazione e per l’elaborazione di regole e di concetti. Questa fase è guidata interamente dall’insegnante e si traduce didatticamente in disegni, in frasi, in elaborati linguistici.
In mostra
Attraverso questi materiali i bambini comunicano la loro visione del bullismo, i sentimenti che esso genera e suggeriscono piccole strategie di fronteggiamento. I disegni vengono esposti nelle gelaterie, semplicemente attaccati alle pareti. A Matisse prendono il posto dei quadri. E dalle pareti svolgono la loro funzione di “comunicazione da pari a pari”, come racconta Claudia. Perché i bambini che vanno in gelateria guardano i disegni, gli adulti chiedono di cosa si tratta, i più piccoli, incuriositi, vogliono che si legga loro.