Andare verso… una comunità educante

Riflessioni sul senso di un progetto

Immersi nella comunicazione

“Con l’evolversi delle tecnologie, l’espansione della comunicazione elettronica e online e la sua diffusione tra i preadolescenti e gli adolescenti, il bullismo ha assunto le forme subdole e pericolose del cyberbullismo che richiedono la messa a punto di nuovi e più efficaci strumenti di contrasto”. A pagina tre delle Linee di orientamento per azioni di prevenzione e di contrasto al bullismo e al cyberbullismo inviate dal MIUR alle scuole nell’aprile del 2015 vengono delineati alcuni approcci, chiavi di lettura e strategie. Il MIUR mette sull’attenti i docenti e i genitori scrivendo che “gli atti di bullismo e di cyberbullismo si configurano sempre più come l’espressione della scarsa tolleranza e della non accettazione verso chi è diverso”.
Mi fermo un attimo perché questo mi sembra un nodo fondamentale.

Uno spazio per tante diversità

Adulti, bambini e ragazzi si trovano oggi realmente in un mondo che fa i conti con tanti tipi di diversità, in cui, teoricamente, viene proposto il diritto alla propria singolarità ma difficilmente vengono costruiti spazi e percorsi in cui questo può succedere. La diversità come ricchezza rischia di diventare uno slogan di persone tacciate di “buonismo” e non una chiave di lettura della comunità in cui si vive. Questo perché la diversità comporta prima di tutto la fatica. Delineare lo spazio del sé in modo non rigido e non univoco, aperto alle perturbazioni, alle incursioni dell’altro, in uno spazio nuovo che comprende un po’ di me, un po’ di te e un po’ di noi richiede una sufficiente capacità empatica. Occorre una fluidità e una morbidezza che vanno insegnate, percepite, vissute, riconosciute. L’altro da me è lì per dirmi chi potrei diventare, non chi sono o chi non sono. E questa dimensione progettuale, questa apertura, va sostenuta: non viene da sé, se non quando la vita trova terreno fertile per ammorbidire l’animo umano.

I tempi attuali, lo abbiamo visto bene con l’emergere di fenomeni come l’hate speech online, sono infestati dalla paura dell’altro: qualcuno arriva da un altrove a portare via diritti, opportunità, certezze.

E allora è tempo di alzarsi presto la mattina per fare un gelato nuovo

Dietro questo inimmaginabile progetto in cui i gelatai si rimboccano le maniche, vedo un grande segnale di speranza. C’è un’attivazione di professionisti che prima di tutto sono cittadini, che fanno parte di una “comunità educante” che smette di essere un triangolo scuola-famiglia-bambini per includere finalmente la comunità reale. Perché un gelataio dovrebbe farsi carico del cyberbullismo o del bullismo? Perché ha deciso che gli interessava. Perché ha avuto voglia di fare qualcosa di buono per sé e per qualcun altro. Perché si è aperto a un nuovo progetto lasciando che qualcosa di sconosciuto potesse trovare spazio e prendere forma.

Accogliere lo sconosciuto.
Offrendogli un gelato.
Perché, idealmente, a nessun ragazzino o ragazzina si congeli il sorriso.
E qui la lotta al bullismo e al cyberbullismo diventa il contesto in cui studenti, insegnanti e genitori si interrogano sul bene pubblico.

Sul bene pubblico

Diventa “bene pubblico” sapersi prendere la responsabilità del mutuo rispetto, saper costruire un ambiente sociale non inquinato dall’odio (G. Ziccardi, 2016) e dalla paura della diversità:

“Un’assicurazione visibile offerta dalla società a tutti i suoi membri che garantisca loro che non saranno soggetti ad abusi, diffamazioni, umiliazioni, discriminazioni e violenze sulla base dell’appartenenza etnica, delle origini etniche, della religione, del sesso, dell’orientamento sessuale” (J. Waldron, 2009)

Il diritto di esistere, il diritto alla propria dignità, il diritto alla reputazione nella società digitale fanno i conti con la tecnologia. Già Joshua Meyrowitz negli anni Ottanta nel libro “Oltre il senso del luogo” esplicitava l’impatto che i media elettronici hanno avuto sul comportamento quotidiano degli individui.
Oggi continuiamo a chiederci quanto le pratiche mediali e comunicative rese possibili dalla tecnologia abbiano influenzato e plasmato nuovi comportamenti: “[…] che peso può avere la nascita di nuovi fenomeni dentro l’ambiente elettronico, quali i like, il desiderio di esibizione e di consenso pubblico, l’urgenza di “esserci” e al contrario il timore di “non esserci” che potrebbe costituire la “morte” in rete e, quindi, suggerire l’uso di espressioni crude per attirare attenzione o visitatori?
(G. Ziccardi, 2016)

L’opportunità della media education

Occorre allora un lavoro continuativo di prevenzione e il consenso sul ruolo fondamentale dell’educazione è unanime: alla conferenza internazionale Together against Hate Speech and Hate Crime a Madrid nel 2014 l’educare era uno dei tre verbi chiave insieme al prevenire (che molto ha a che fare con l’educare) e il sanzionare. Il rispetto della diversità, la promozione della tolleranza e dei diritti umani devono andare a braccetto con una piena consapevolezza del ruolo che i media e la tecnologia hanno nella società e nelle singole quotidianità. La media education, nella nostra esperienza, è stata quello spazio dove farsi domande, leggere comportamenti, riflettere sulle situazioni che il rapporto tra tecnologia e vita quotidiana pone in evidenza. Il racconto del mondo, di ciò che è bene essere e di ciò che è meglio evitare di diventare, di ciò che è desiderabile e di ciò che è condivisibile sono le parole (intercettate e colate dal flusso mediale e digitale) con cui i nostri adolescenti scrivono la loro percezione di se stessi e del mondo. Per fortuna, non le uniche. Ma troppo spesso la scuola e i genitori si dimenticano di sbirciare quel dizionario di significati che il consumo mediale e tecnologico propone a figli e studenti. Anche perché questi “famigerati “ adolescenti, indefinibili e non categorizzabili, non solo “leggono” il mondo e se stessi, ma anche lo scrivono: sempre più attivi, nel piacere delle loro pratiche mediali extrascolastiche, nella creazione di contenuti, nell’espressione del sé, nel costruire qualcosa per loro.

Di necessità

In quello spazio dell’immaginazione dove noi adulti, come genitori e insegnanti, li pensiamo, progettiamo e desideriamo e contemporaneamente, in quello spazio dell’immaginazione (spesso virtuale in tutti i sensi) in cui loro stessi si proiettano, identificano, definiscono provvisoriamente c’è tutto il necessario per imparare a diventare persone morbide, capaci di accogliere l’altro.
È in questo spazio che la vittima di cyberbullismo o di bullismo trova il modo di ripartire, che i bulli trovano il modo di ripensarsi altrimenti, che i più sensibili o i più omertosi possono finalmente formularsi delle domande. In uno spazio non giudicante dove in primis si è persone, a prescindere dall’età, nell’atto di costruire una comunità accogliente.